il viaggio di ritorno

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29

 

Alle quattro del mattino i cinque lasciano la casa di Via Padova. Con l’ingombro di mappate e mappatelle si avviano verso la fermata del tram. Devono andare alla periferia di Roma, verso sud. Dovranno prendere la Via Appia.
L’aria del mattino è frizzantina e presto anche Elena e Matilde si svegliano completamente.
Francesca è felicissima di non dovere più decidere da sola per tutta la famiglia. Quanta sicurezza le dà la presenza di Augusto!
Arriva il tram e uno alla volta vi salgono sopra, trafficando con il loro bagaglio. Ne ridiscendono dopo un certo percorso per prenderne un altro, poi cambiano ancora per fare un altro tratto di strada e ben presto si ritrovano alla periferia di Roma. Ora veramente comincia un’impresa più grande della loro buona volontà.
Augusto conosce la direzione da prendere e s’incamminano, a piedi, imboccando l’Appia. Ci sono centocinquanta chilometri da percorrere, tutti a piedi se non si troverà qualche anima caritatevole disposta a caricarli su una camionetta o su una carretta.
Un passo dietro l’altro cominciano a coprire quei chilometri. Augusto apre la fila, tenendo per mano Matilde che ogni tanto chiede di andare in braccio. Elena, invece, resiste di più e cammina accanto alla mamma. Ha smesso di andare avanti e indietro perché la mamma glielo ha impedito avvertendola che la strada da fare è talmente tanta che non ci si può permettere di sprecare energie inutilmente. Maria Civita chiude il breve corteo.
Non sono i soli a marciare in direzione sud. Si vedono altri gruppetti sparuti, con il bagaglio tipico degli sfollati composto da fagotti.
Si guardano sperando di riconoscere volti familiari ma non è così. Si sorridono e in quei sorrisi si legge ce l’abbiamo fatta e continuano per la loro strada.
Che ci sia altra gente a condividere la stessa fatica, da un verso, fa piacere ad Augusto, Francesca e Maria Civita, perché si sentono meno abbandonati ma per un altro verso la presenza di altre persone, con le stesse esigenze, rende più difficile la possibilità di recuperare un passaggio su una delle scarse camionette che transitano.
Verso le dieci sono già stanchi. Hanno camminato tanto ma è niente rispetto a quello che resta. Le bambine sono distrutte e anche le gambe di Augusto, Francesca e Maria Civita cominciano a cedere. Decidono di fare una pausa.
Sono seduti da una mezz’oretta quando sentono un rumore. Vedono spuntare un trabiccolo a tre ruote. Tutti e cinque si lasciano prendere dall’entusiasmo e alzano le braccia per fermarlo ma, inutilmente, perché è già carico di altri sfollati.
Si rimettono in cammino e vanno avanti fino alle due del pomeriggio. I piedi sono gonfi e le scarpe crepano, anche perché sono più che consumate. Le ginocchia si piegano, i muscoli delle gambe fanno male e, in più, le bambine devono essere portate in braccio.
Quelle che transitano sono camionette militari e vanno nei due sensi di marcia. Dopo altri quattro tentativi falliti per procurarsi un passaggio Augusto avverte le donne di non spaventarsi se farà una cosa strana al prossimo mezzo a quattro ruote che arriverà. Francesca solo a sentire che non dovrà spaventarsi si spaventa immediatamente e chiede:
“Ma che ti passa per la mente?”
“Lo vedrai, aspetta!”
Dopo una mezz’ora di lento cammino, fatto strascicando i piedi, sentono che si avvicina un camion e lo vedono sbucare in lontananza. E’ un’altra camionetta militare. Francesca è tesa perché non sa cosa Augusto abbia in mente. Lo vede camminare sul ciglio della strada e sembra indifferente al camion in arrivo ma, di scatto, quando il muso del mezzo lo ha appena superato, fa finta di inciampare e cadendo si fa toccare di striscio dal camion.
Francesca e Maria Civita, che lo seguono di pochi passi, non hanno capito che lo ha fatto apposta e urlano spaventate. Elena e Matilde, sentendo le grida della mamma e della nonna, cominciano a piangere.
Augusto, che è stato bravo ad evitare di farsi veramente travolgere, si accascia a terra fingendo di non farcela a camminare. Non è proprio una bugia che non ce la faccia a camminare ma il motivo non è il finto incidente.
Il camion si ferma.
Scendono i militari che sono nella cabina di guida. Si scambiano delle parole in Americano e, anche se con una certa riluttanza, fanno salire tutta la famiglia sulla camionetta, dove sono altri soldati.
“La  Maronna ha scotato le preghiere mie.” dice Maria Civita e appena sedutasi prende la corona per recitare un rosario di ringraziamento.
E’ andata proprio bene perché il camion li porta fino a Formia, a soli quindici chilometri da casa. Durante il viaggio hanno anche mangiato fagioli e carne in scatola e, per le bambine, anche un pezzo di cioccolato.
Quando scendono, a Formia, si ritrovano in mezzo alle macerie di Via Vitruvio. Che sgomento! E se Minturno è ridotta allo stesso modo?
Sì, sarà dura, ma sono a casa.