il coraggio della disperazione

il coraggio della disperazione

il coraggio della disperazione

17

 

Questo lasciamolo alle bambine!
Francesca prende il pezzo di pane che Maria Civita è riuscita a farsi dare da alcuni contadini e lo ripone nella credenza. Nasconde quella reliquia nel ripiano più alto rispetto a quello dove, di solito, mette la polenta. Non vuole che Elena e Matilde lo vedano e lo mangino prima dell’ora di pranzo, anche se del pranzo, ormai, si rispetta soltanto l’orario. Ce ne vuole di inventiva per chiamare pranzo quel breve lasso di tempo trascorso a tavola, con il solo risultato di illudere lo stomaco, tanto è inconsistente la quantità di cibo che possono permettersi di mangiare. Oggi c’è un pezzo di pane, come quello di una volta ma talmente piccolo che sparirà con non più di tre o quattro bocconi.
Mamma, non ho più neanche un soldo” confessa Francesca, visibilmente preoccupata “ Non so come fare per tirare avanti”
“No’ sai quanno maritutu ve’ in licenza?” chiede Maria Civita.
Non lo sanno neanche al Ministero, non si capisce più niente. Non si capisce chi sta con gli Americani e chi ancora con i Tedeschi. Sta diventando  una guerra tra Italiani. Fratelli contro fratelli. Fascisti  e comunisti, li chiamano  mussoliniani e badogliani.  Da settembre non si capisce più niente. Comunque la Littorio è bloccata in Africa, chissà quando la  sbloccano.”
“Franceschi’” così la chiama affettuosamente Maria Civita “ pecché non vai agliu Ministero e te fai dà la paga de maritotu?”
“Mamma’, ma che dici! Se vado a chiedere una cosa del genere credi che mi staranno ad ascoltare?
“La verità, aggio sentuto dice che stanno a pagà le mugliere degli  militari che ancora stanno  ‘mbarcati. Te costa cacche cosa, si ce vai? I’ la facesse la prova. ‘nze po’ mai sapè”
“Vero, che mi costa? Domani ci vado.”
La mattina dopo Francesca parte di buon’ora e, con un batticuore da farle sobbalzare il petto, arriva al Ministero. Si siede su una sedia che trova in un angolo, nell’anticamera di un ufficio che, secondo lei, è quello giusto per la sua richiesta. E’ sola nell’anticamera e questo non la conforta perché pensa che forse la mamma le ha raccontato una fandonia per spronarla a fare quel tentativo. Secondo lei, se veramente dessero la paga alle mogli dei soldati ancora imbarcati , lì dovrebbe esserci la folla.
Non ha il coraggio di bussare. Sta pensando che forse sarebbe meglio andarsene, prima di esporsi al ridicolo.   Sente forte la tentazione di fuggire ma la voce prepotente della fame e quella della disperazione le impongono di tentare il tutto per tutto.
“Da dove comincio se mi danno la possibilità di parlare?” e mentalmente ripassa tutti i validi motivi che l’hanno spinta fin lì “ dico … che abbiamo fame …, che mio marito non può darmi i soldi perché è imbarcato  … se noi muoriamo di fame che se ne farà mai dei soldi accumulati, …dico che noi non abbiamo la tessera… che pane non se ne  trova ora neanche più la polenta e le bambine…”
Signora, cosa volete?” le chiede un usciere
“Vorrei parlare” Francesca si rischiara la voce “vorrei parlare con qualcuno che può darmi la paga di mio marito!”
“Cosa? Ma chi vi ha mandato qui? Oggi non è giornata di ricevimento e questo non è l’ufficio giusto.”
“…ma allora c’è l’ufficio giusto?  li date i soldi ?” un lampo di speranza guizza negli occhi di Francesca.
L’usciere la guarda e continua, sperando di trovare un appiglio per non mandarla: “Avete una lettera di presentazione, qualcosa?”
“Sono venuta da sola, ma ho i documenti! Sì, i documenti” la sua voce accarezza questa parola mentre le sue mani si assicurano che i documenti siano al loro posto.
“Aspettate un momento, vedo se qualcuno vi può ascoltare.” e se ne va dubbioso.
“Grazie!”
Francesca nella sua mente accende un cero alla Madonna “ Madonna mia, fa che qualcuno mi dia ascolto, non mi abbandonare, Madonna mia, Madonna di Pompei, aiutami!”
“Signora, venite!”
Con l’animo in subbuglio, dopo aver percorso infiniti corridoi e giravolte, Francesca entra in un ufficio tutto lustro, con il pavimento tirato a specchio. Dietro la scrivania c’è un signore di una certa età che la scruta, da cima a fondo. Forse si sta domandando quanto sia grande la disperazione di quella giovane donna che ha il coraggio di presentarsi fuori orario e nel posto sbagliato. Francesca è imbarazzata e abbassa lo sguardo. Si rende conto che non è corretto non guardare la pesona che le sta di fronte e fa uno sforzo per essere educata. Vede la sua immagine riflessa in uno specchio posto su una parete,  che non aveva notato prima , e si sente come un pulcino bagnato, del tutto inadeguata a quell’ambiente curato. Si sente smarrita. I suoi abiti lisi, ormai troppo larghi e stinti, contrastano ferocemente con il velluto rosso delle poltroncine dorate che arredano la stanza. Il pavimento lucido riflette anche la punta di una scarpa ormai aperta e senza più forma. Le luci degli enormi lampadari sono accese e mettono in risalto tutta la sua miseria. Cerca con lo sguardo un posto più nascosto, dove rifugiarsi per recuperare un po’ di dignità mortificata, ma non ne vede. Deve solo attendere la fine di quell’avventura, che sta durando un secolo, nella quale, da disperata incosciente si è cacciata.
Il silenzio pesa e questo non è di certo l’ufficio di un semplice impiegato del Ministero.
“Chissà dove mi hanno portata! Ora questo mi caccia!” pensa smarrita
“Allora , signora, qual è il vostro problema?”
“Mio marito è in guerra sulla Littorio, anzi ora si chiama Italia” fa questa precisazione per timore che quel signore possa giudicarla poco informata “i soldi della paga li danno a lui, noi non abbiamo neanche la tessera  e moriamo di fame. Lui non sa che farsene dei soldi in Africa, li vorrei io!” detto tutto di un fiato, per paura di non farcela più se solo si fosse fermata a riflettere.
“Chi è vostro marito?”
Senza rispondere, perché dalla sua bocca non esce neanche più una sillaba, Francesca mostra i documenti, i suoi santi documenti! Il personaggio importante dietro la scrivania li esamina attentamente, prende delle cartelle da un armadio e suona un campanello. Entra il tizio di prima, al quale il personaggio importante dice di accompagnare Francesca in un altro ufficio.
“Ma allora non mi state cacciando?” sussurra Francesca.
“Certamente no, signora. Vostro marito ha  combattuto per l’onore della patria e leggo che non è la prima volta. Ha partecipato ad altre guerre. Noi vogliamo proteggere i familiari dei nostri soldati. Vi faccio accompagnare nell’ufficio giusto.”
Francesca si rianima, trotterella appresso all’usciere da un ufficio all’altro, fino a quello giusto.
“Ecco, signora, sapete firmare?” le chiede l’impiegato dell’ ufficio giusto.
“Sì, so anche leggere e scrivere” aggiunge Francesca euforica, anche se all’impiegato non interessa  che lei sappia andare oltre la firma. Ora che vede i soldi ritrova anche la voce.
“Firmate qui e tornate il prossimo mese. Quando vostro marito torna, restituirete tutta la somma. Qui c’è scritto tutto.”
“Grazie, eccellenza, grazie!”
Non è un “eccellenza”, è un semplice impiegato ma per Francesca è Dio. Prende le sue 500 lire e se ne torna a casa.
La via del ritorno è lastricata di piume. Le sue scarpe sformate e logore neanche toccano il terreno. Ora può comprare qualcosa da mangiare. Non si trova molto, neanche a pagarlo tanto, ma qualcosa sempre si rimedia, avendo i soldi.
“E’ stato l’angelo custode a dire a mia madre di andare al ministero.”
Questo il suo pensiero e in un lampo arriva a casa. Con sua grande sorpresa trova lì anche Maria Civita
“Già sei qui?” le chiede Francesca meravigliata perché non è mai rientrata se non poco prima del coprifuoco. “Come mai sei tornata così presto? Ti è successo qualcosa?”
“E sì, mìè succesa ‘na bella cosa. ‘N’ce semo iute fore, stammatina” racconta Maria Civita “ pecché, arrivate a Piazza Bologna, ammo visto che ce steva nu camion de tedeschi, co’ tanta gente attorno e stevono a dà zucchero, farina e riso. Ce steva nu munno de gente attorno  e semo iute puro nui.”
“E che stevano a fa? non ve sete messe paura?” chiede Francesca.
“Prima ammo visto bono che succedeva.  Bastava  che te facivi fa gliu cinema e te devono zucchero e farina. Certi  non s’hanno voluto fa’ fa’ gliu cinema pecché hanno ditto che po’ lo facevano vede’ ‘ngermania, pe’  fa’ crede che issi  so’ bravi co’ nui, e che invece tutti anna sapè che ce massacrano.  Ma io, a dice la verità  me so’ messa ‘n’fila e mentre aspettavo la razzione mia aggio ditto gliu rosario alla Madonna, accussì se stevo a fa’ caccola de male me perdonava. Che me ne ‘mporta degliu cinema se penso alle creature che se morono de fame. Ecco, vidi c’aggio portato!”
“ Ma allora oggi è proprio ‘na iornata fortunata. Al Ministero mi hanno dato i soldi.
“ Davero?”
Sìììììììììì, cinquecento lire!
Francesca, Maria Civita e le bambine si abbracciano formando un groviglio scomposto di corpi, in un’esplosione di gioia ormai lontana dalla loro memoria.
E’ una sferzata di speranza che aiuta a sopravvivere, a superare i momenti neri che non mancano mai, perché pochi soldi e una manciata di farina e zucchero non cambiano una vita ma fanno sperare che possa succedere
“Ehi! cosa succede qui?” chiede sorridendo Paolo che, di ritorno dal negozio, le sorprende in quella euforia senza precedenti.
“Guarda!” e mostrano zucchero, farina, riso e soldi.“Caspita! Ora capisco. Da dove arriva tutto questo”
Le due donne raccontano, accalorandosi, ma si accorgono che Paolo non viene coinvolto dal loro entusiasmo.
“Che ti succede, Paolo? Ti vedo preoccupato, è successo qualcosa a Sara e ai bambini?”
“ No, per fortuna loro  stanno bene, ma oggi c’è stato un attentato assai serio contro un camion tedesco.”
“Mio Dio! Adesso che succederà?” chiedono Francesca e Maria Civita  “e dove è successo?”
“A via Rasella e se i Tedeschi mantengono la minaccia che hanno fatta tempo fa, per ogni tedesco morto ci saranno dieci Italiani uccisi.”
“ E quanti tedeschi sono morti?”
“Certi, per ora  sono ventisei ma ci sono almeno sei feriti gravissimi.”
“Signore, non permettere questa carneficina”
“La cosa che mi fa arrabbiare di brutto”  dice Paolo  “è che a Roma i militari non dovrebbero esserci perché è città aperta, invece quei bastardi di Tedeschi sono sempre in giro e ammazzano un’infinità di gente, senza motivo. Solo se qualche rotella gli gira storta.”
“E’ lo vero” dice Maria Civita “i’ non ve lo racconto ma quanno giro pe’ le strade ne sento e ne vedo de fatti che me fanno arrizzà gli capigli ‘ncapo.”
“Ch’hai visto de tanto terribile?”
Maria Civita sospira e decide di raccontare qualcosa che si porta appresso da alcuni giorni.