il primo televisore

il primo televisore

il primo televisore

Giacomino, il tecnico che venne a farci la consegna, non si poteva proprio definire un bel ragazzo. Era abbastanza grasso, non era alto, portava un paio di occhialini con la stanghetta storta e tirava su con il naso ma quando girò la manopola e il televisore, che aveva appena installato, si accese, ai miei occhi assunse le sembianze di un dio.
Non eravamo più soli e sperduti in quella casa in riva al mare, ora avevamo il mondo a portata di mano. Un mondo infilato in un apparecchio a forma di cubo, con uno schermo sul quale si muovevano persone e animali, che ci portava in casa un universo sconosciuto.
Quella diavoleria moderna aveva il potere di tenerci incollati per ore, con il naso all’insù e in piena estasi.
Sistemammo il televisore in veranda.
Chiamavamo veranda uno stanzone rettangolare abbastanza lungo, chiuso a vetri, che avevamo ricavato da un terrazzo aggiunto alla casa “faidate” in un secondo momento per mettere in comunicazione le camere di un lato della casa.
Su un mobiletto alto con le rotelle, dato in dotazione con il televisore, mettemmo in bella mostra il “cubo magico”. Il mobiletto era alto abbastanza in modo da permettere a tutti gli spettatori di assistere alle trasmissioni senza essere disturbati dalle teste di chi sedeva davanti, proprio come al cinema e la nostra veranda, nel giro di pochi giorni dall’arrivo del televisore, si trasformò in una rudimentale sala cinematografica.
Dico così perché davanti al televisore vennero piazzate tante sedie, per lo più mezzo sgangherate, sistemate tutte in fila per dare la possibilità agli ospiti di sedersi. Quelle sedie le avevano portate gli ospiti da casa loro e le lasciavano in pianta stabile, senza minimamente porsi il problema che potessero essere d’impaccio.
Quando si avvicinava l’ora d’inizio delle trasmissioni c’era una processione di gente che, alla spicciolata, arrivava e si accomodava al proprio posto. Tutto avveniva con la massima naturalezza, come se il venire a guardare la televisione fosse un diritto acquisito: il diritto di vicinanza alla casa con televisore!
Gli ospiti erano sempre presenti, i primi tempi a mala pena ci davano il tempo di cenare, non si perdevano un minuto di trasmissione. Venivano alle diciassette, quando iniziavano le trasmissioni per i ragazzi, e se ne andavano per l’intervallo delle venti. Si ripresentavano mezz’ora dopo per le trasmissioni della sera.
Qualcuno sarebbe rimasto anche a guardarsi il monoscopio, senza abbandonare la propria postazione, ma la veranda era anche la nostra camera da pranzo e, quando mia sorella cominciava ad apparecchiare per la cena, anche se a malincuore, si alzavano e andavano anche loro a mangiare un boccone.
Questo, in verità, alla lunga cominciò a infastidirci ma bisognò sopportarlo perché sarebbe stata una grossa cattiveria privare i vicini di quell’ unica distrazione che l’ambiente offriva.
L’inizio delle trasmissioni era un’emozione fortissima. Indipendentemente dal programma trasmesso, si restava a guardare meravigliandosi che una scatola, apparentemente fredda e muta potesse animarsi di vita solo girando una manopola, e che vita! Mondi sconosciuti che arrivavano alle menti intorpidite di gente che aveva solo una conoscenza occasionale del cinema.
Noi eravamo una delle poche famiglie a possedere un televisore tutto nostro, non perché fossimo ricchi, infatti lo comprammo a rate, ma perché mio padre, che amava le novità, trovò l’alibi del buon nome della famiglia, per giustificare la spesa con la sua coscienza e con mia madre, visti i tempi duri che si attraversavano. A sua discolpa, per la spesa affrontata, diceva che non si addiceva a due ragazze, ovvero noi figlie, che il giovedì sera andassimo al bar a vedere la puntata di ”Lascia o Raddoppia?”.
Ricordo ancora quel bar, era a circa un chilometro da casa mia e si chiamava “Bar delle Sirene”. Il televisore era piazzato in alto, su una mensola. La sala si affollava il giovedì sera. Non so cosa accadesse gli altri giorni perché mio padre non ci permetteva di andare, il giovedì era l’unico giorno che ci veniva concesse quello svago.
Fu talmente grande il successo della televisione che, almeno nel mio paese, oltre ai gestori dei bar anche quelli dei cinematografi furono costretti a comprare il televisore per attirare gente nei loro locali e battere la concorrenza.
Questi ultimi mettevano un televisore davanti allo schermo e nel prezzo del biglietto comprendevano sia lo spettacolo televisivo sia la visione di un film, spesso a puntate.
Ricordo che i programmi erano fissi, distribuiti nella settimana. Il lunedì sera un film, il martedì una commedia, il mercoledì la puntata di uno sceneggiato tratto da un romanzo, il giovedì era dedicato al quiz di Mike Bongiorno, il venerdì un documentario, il sabato il varietà, il circo la domenica. Forse ho invertito qualche giorno della settimana ma la sostanza era la stessa. Ovviamente con il tempo i programmi sono aumentati.
Comunque, tornando agli albori di questo evento mediatico, purché qualcosa si muovesse su quello schermo nessuno voleva perderselo, neanche se si fosse trattato di una conferenza su astruse dissertazioni filosofiche, purché ci fosse da vedere, capire era un aspetto secondario.
Quando parlo di ospiti non si deve pensare ai vicini della porta accanto ma a gente che arrivava da distanze più ragguardevoli.
Zia Angelina era quella che abitava più lontano di tutti e veniva trascinandosi appresso tre marmocchi lamentosi che avrebbero preferito restarsene a casa a giocare mentre lei, a qualsiasi costo, non voleva perdersi la puntata di ”Jane Eyre”. Appassionata dei romanzi a puntate, antesignani delle ben meno interessanti telenovelas, la zia Angelina si animava talmente tanto quando c’era qualche scena più coinvolgente che si scagliava materialmente contro il cattivo della situazione e bisognava rimetterla a sedere di prepotenza per evitare che il tanto amato apparecchio televisivo subisse danni materiali.
La domenica sera, quando c’era il circo, mia nonna Matilde si piazzava prudentemente vicino alla porta, pronta a scappare quando andava in onda il numero dei leoni, perché nessuno riuscì mai a toglierle dalla testa che quelle bestie non potevano uscire dalla scatola, come lei chiamava il televisore. Del resto lei era convinta che le persone della scatola ci potessero vedere e parlare, infatti sistematicamente rispondeva buonasera alle annunciatrici che salutavano prima di iniziare ad elencare i programmi della serata.
La zia Tommasina, poi, che scendeva appositamente dal paese il sabato sera, si accomodava in prima fila, sulla sedia sdraio che cullava i pisolini di mio padre durante il giorno, per non perdersi neanche un flash del varietà. Lei non tornava al paese per cenare, era troppo lontano, e portava con sé una sporta di paglia, di quelle che tagliavano le mani, dentro la quale metteva un bel pezzo di pane e un po’ di formaggio o salsiccia fatta in casa, una bottiglietta di vino, anche questo prodotto in proprio, un coltelluccio a serramanico, fedele compagno di tutti i pasti consumati in campagna e, aperto il canovaccio che chiudeva a mappata con tutte le sue cibarie, lo stendeva sul tavolo e consumava la sua cena davanti alla TV, insieme a noi.
Mia nonna, invece, a proposito del varietà, rimproverava aspramente mio padre e non riusciva a capire come una persona ”così seria come lui avesse messo il bordello in casa, pur avendo figlie femmine”. Non tollerava che stessimo a guardare le ballerine con i vestiti a fior di culo (parole sue) che si dimenavano sullo schermo. Malgrado questi rimproveri a mio padre, lei gradiva quel genere di spettacolo, anzi avrebbe voluto che lo facessero più spesso. Aveva, comunque, una teoria tutta sua sulla frequenza delle trasmissioni, perché mai riuscì a capire il funzionamento della televisione. Era convinta che, bisognasse offrire da bere ai musicanti per farli tornare anche la sera dopo, proprio come si usava, quando lei era ragazza, con i giovanotti che andavano a portare una serenata. Invitarli a bere significava accettare la serenata e incoraggiare l’autore a ripeterla.
Tra gli ospiti non invitati c’era anche Luciella, una ragazza con un paio di baffi da far invidia al personaggio che è disegnato sulla bottiglia della birra Moretti. Ormai aveva imboccato, da un pezzo, il sentiero dello zitellaggio. Lei sosteneva che, venendo a casa mia, aveva risolto due problemi, quello della noia e quello del freddo, visto che noi avevamo un bel camino sempre acceso. Peccato che tra il pubblico non fosse mai capitato un contadinotto adatto a lei, avrebbe risolto il terzo problema.
Le sedie erano tante e venivano occupate tutte le sere. A noi ragazze faceva piacere la compagnia, visto che vivevamo in una casa molto isolata, ma mia madre cominciava a stancarsi di tutto questo trambusto. Allora non mi rendevo conto del perché le dessero fastidio tutte quelle persone vocianti ed esageratamente allegre, almeno dieci o dodici a sera, ma con il tempo mi sono resa ben conto del perché lei non gradisse, quanto noi, avere ospiti tutte le sere.
Pian piano, comunque, il tutto si ridimensionò. Altre famiglie cominciarono a comprare televisori e gli spettatori, un po’ alla volta rimossero le loro postazioni da casa nostra e si trasferirono in case più vicine alle loro. Le sedie diminuirono nella veranda, le serate diventarono più tranquille. Mia nonna sempre pronta a fuggire in caso di pericolo. La zia Tommasina non scese più perché cominciò ad avere problemi di dolori alle articolazioni e non ce la faceva più a scendere a piedi dal paese. Anche la zia Angelina trovò un’altra sistemazione e, non ci si crederà, ma Luciella trovò addirittura marito. Così finì un’epoca. La veranda si spopolò del tutto. Tutto ormai è cambiato. Solo Mike Bongiorno resiste imperterrito al logorio del tempo.

 

14 luglio 2004