il racconto di augusto

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Un’altra nottata di veglia in Via Padova ma questa volta è la gioia che non fa dormire nessuno. Non c’è verso neanche di far dormire i bambini. Nessuno dei quattro riesce a staccarsi dal proprio papà. Gli adulti si soffermano sui ricordi e, in particolare, vogliono sapere da Augusto come ha trascorso quei mesi e così quella cucina che ha già ascoltato il racconto dell’attentato di via Rasella, del massacro di tanti italiani per rappresaglia, degli ebrei prigionieri sui treni, della carneficina della popolazione in Ciociaria e altri episodi di morte, ora ascolta anche della guerra vissuta da Augusto.
Parla, come se la rivivesse, della paura di non potercela fare quando il 9 Settembre, al largo della Maddalena, dove erano stati dirottati dopo l’armistizio, vennero attaccati dai Tedeschi.
Paolo vuole saperne di più e Augusto racconta come l’ammiraglio Bergamini, che per loro fortuna aveva deciso di passare dall’Italia sulla Roma, avendo saputo che la Maddalena era in mano tedesca aveva ordinato di cambiare rotta e dirigersi verso l’Asinara. I Tedeschi reagirono immediatamente e la Roma fu letteralmente spaccata in due.
“Quanti ragazzi sono morti e noi abbiamo vista la morte con gli occhi”
“Sapessi quanta paura ho avuto anche io” dice Francesca “non sapevo di preciso su quale delle due navi era l’ammiraglio e la notizia che ho sentito era solo che la nave ammiraglia era stata affondata.
“Poi” riprende Augusto “siamo stati mandati in Africa.”
“Perché in Africa?”
“Nessuno ce l’ha spiegato perché, ma evidentemente nel mare italiano eravamo indesiderati”  e qui l’amarezza di Augusto è evidente. Deglutisce come per mandare giù un rospo che ha in gola.
“Beh!” interviene Paolo “vuoi dire che gli Americani lo hanno fatto per liberarsi di voi?”
“Non posso dirlo con precisione ma le voci che circolavano sulla nave, e non erano i semplici marinai a parlarne, erano proprio queste.”
“Cioè? Cosa di preciso?”
“Si diceva che gli alleati avessero paura che troppe navi italiane, tutte insieme, potessero rappresentare un pericolo.”
“In che senso?”
“Nel senso che si potevano coalizzare contro di loro, dato che le idee tra di noi non è che fossero proprio chiare del tutto.”
“Questo è vero, anche nell’esercito la stessa cosa.” dice Paolo.”
“Ma ti rendi conto, Paolo, di come ci siamo sentiti umiliati noi tutti? Dopo che abbiamo combattuto per la nostra patria, rischiando la morte, a restarcene internati ai Laghi Amari, come se fossimo stati prigionieri di guerra?”
“Ma dai, mica eravate prigionieri!”
“Ah, no? E come li definisci tu quegli uomini che per mesi non hanno potuto mettere piede a terra, che sono stati costretti all’inattività, che hanno passato le giornate a fare niente. Giornate a pescare granchi, come dei vecchi pensionati.”
“Beh, non è stata una situazione ideale ma almeno non avete sofferto.”
“Dipende da cosa si intende per sofferenza. Per persone abituate a combattere, l’inattività e il sentirsi trattati come potenziali traditori sono già una sofferenza. Essere tenuti come topi in trappola, senza valere niente e costretti solo ad aspettare. Aspettare cosa, poi! Aspettare solo che passassero i giorni. Sapevamo che non avremmo combattuto mai più perché dalla nave era stato portato via molto materiale bellico. Almeno ci avessero mandato via da lì.  Non riuscire a sapere niente della famiglia, sapere che la loro vita è a rischio mentre tu te ne stai lì a guardare oziosamente, per mesi, l’unico film disponibile. Pescare i granchi di giorno e guardare sempre lo stesso film la sera”
“Avevate anche un film?”
“Sì, Il cerchio rosso. Quel film lo abbiamo imparato a memoria. Ormai lo guardavamo anche stando di spalle e scommettendo sulla successione delle scene.”
“Quando ti hanno rimpatriato?” chiede Paolo”
“Circa un mese fa, siamo stati portati a Taranto. Poi ognuno ha preso la sua strada, come tanti sbandati. Io, appena ho potuto, sono andato alla stazione nella speranza di prendere un treno per Napoli. Ho fatto un viaggio allucinante. Dapprima su un treno merci e mi sentivo peggio di un animale portato al macello ma non sapevo che avrei potuto considerarmi un re in quelle condizioni. Me ne sono accorto quando sono salito su un treno viaggiatori ed è stato un grosso rischio.Ho aspettato che ci fosse un treno meno pieno degli altri ma erano tutti stracarichi e allora mi son deciso a rischiare. Sono riuscito a salire ma si viaggiava con le porte aperte, tanta era la gente, e, per paura di cadere durante il tragitto, mi sono slacciata la cinghia dei pantaloni e me la sono rallacciata facendola passare attorno al tubo di metallo al quale mi aggrappavo con entrambe le mani. Vedendo me, lo hanno fatto anche altri. Che tristezza e che rabbia allo stesso tempo. Dopo tanti mesi di Laghi Amari finire agganciato in quel modo, come un prosciutto al gancio, per non fare una misera fine sotto un treno. Sarebbe stato più dignitoso morire nelle acque della Maddalena.”
“Lo sai che molte navi per non cadere in mano nemica si sono autoaffondate?” dice Paolo.
“L’ho saputo quando sono arrivato a Taranto, però sapevo che ci sarebbero stati gli autoaffondamenti perché Bergamini aveva diramato questo ordine piuttosto che essere fatti prigionieri.”
“Dai, non pensare più a questo, l’importante è avercela fatta”lo conforta Paolo.”
“Pensa solo che ora sei con noi” gli dice Francesca”
“Pensare a voi mi ha aiutato moltissimo a superare momenti di reale sconforto. Quando mi coglieva quella noia mortale che mi dava alla testa, pensavo che forse voi eravate in pericolo e l’ansia che subentrava ammazzava la noia.”
“Mo’ stai ccà e semo tutti vivi” dice Maria Civita     “ringraziamo la Madonna e pensamo a chello c’amma  fa’.
“Ma la rabbia di tanto inutile sacrificio rimane”          risponde Augusto.
“Ma quale rabbia e rabbia,  si vivo e tanto basta! Sai a me che m’ è rimasto d’ Enrico? Nu telegramma! sì, m’è tornato dalla guerra chiuso dento a nu telegramma. Manco agliu cimitero gli pozzo i’ a chiagne.  Manco nu fiore gli pozzo portà. Aggio provato a chiede  do’ gl’hanno atterrato e m’hanno risposto che sta agliu cimitero de Asiago, alla fossa comune. ‘Nzema a tanti ati figli di mamma. E chisà se veramente ce sta dento a chella fossa.  Milite ignoto. Enrico mio! ignoto!”
Queste parole di Maria Civita generano tanta commozione in tutti i presenti. Tutti si rendono conto che nulla vale quanto la vita di un uomo e la conversazione sul passato finisce lì.
Maria Civita ha ragione, adesso bisogna smettere di rivangare il passato e impegnarsi a creare il futuro.